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19 Maggio 2018


Cannes: Gary Oldman, un camaleonte a Hollywood

Arrivato ai suoi 60 anni sulle ali di un trionfo assoluto con "L'ora più buia" che, grazie alla perfetta mimesi con Winston Churchill, gli ha fruttato tutti i più grandi premi del pianeta a cominciare dal meritatissimo Oscar, Gary Oldman atterra a Cannes per una conversazione pubblica che diviene subito l'autentico evento del penultimo giorno sulla Croisette.

    Passo da ballerino, pizzetto da professore, aria distratta da inglese americanizzato (da anni vive a Los Angeles), il londinese Oldman, figlio di saldatore ubriacone e cresciuto in una nidiata di donne (la madre lasciata sola quando Gary aveva sette anni e due sorelle maggiori) si è ritagliato da anni un'aura da bello e maledetto, come il suo più caro amico David Bowie. L'animo ribelle coltivato da giovane da quando, testardo, si convinse prima che sarebbe diventato un grande pianista e poi un attore di prima fila, e confermato da una vita privata quantomeno tempestosa (cinque moglie, tre figli, una lunga storia con Isabella Rossellini) sembra acquietato da un'esistenza professionale smagliante e dall'amore paterno.

"Non sono un grande pianista, non me la cavo male. Invece il cinema - racconta - mi è entrato nel sangue a 15 anni quando andai a vedere "La luna arrabbiata" di Bryan Forbes, scoprendo in Malcolm McDowell le due doti maggiori che un attore per me deve esprimere: vulnerabilità e minaccia indissolubilmente legate. A quei tempi un ragazzo non aveva molti passatempi, non c'erano tv e videogiochi, a scuola si leggeva Shakespeare a voce alta ma quelle parole non mi dicevano nulla. Poi, recitate in teatro, prendevano un colore tutto diverso e io mi misi in mente il chiodo fisso di essere attore alla Royal Academy. Mi hanno rifiutato una volta, poi si sono dovuti ricredere e io intanto facevo già la tv con autori come Mike Leigh e respiravo la stessa aria che poi mi avrebbe portato a lavorare con Stephen Frears in 'Prick up' da Kureishi. Era una bella stagione, avevo amici bravissimi come Tim Roth, Daniel Day Lewis, Colin Firth, il cosiddetto 'Brit Pack' e abbiamo avuto le nostre soddisfazioni. Io non sono del genere invidioso per i colleghi.

    Certe volte li vedo sullo schermo e mi dico: Ma come ha fatto! Ma che forza in quest'interpretazione. Invece per i miei film ho sentimenti oscillanti, per lo più cambio canale. Non così per 'JFK' di Oliver Stone che per me resta il simbolo del cinema che vale la pena di fare e che adesso sarebbe impensabile. Girammo tutto dal vero, nei luoghi veri, Stone mi spedì a New Orleans col biglietto pagato perché capissi dove Lee Oswald era cresciuto e viveva, ho incontrato sua figlia, ho capito pian piano come entrare nella pelle di un personaggio. E quando è vissuto veramente cerco di aderire totalmente. Ma anche per il poliziotto James Gordon di 'Batman' ho lavorato nello stesso modo: in fondo Batman esisteva già! Con Christopher Nolan è una storia bella. Ti parla pochissimo, se ne sta sul set tranquillo a bere il suo thè, controlla tutto da lontano senza nemmeno guardare il monitor e tutto pare quasi banale. Poi vedi la scena sullo schermo ed è perfetta. Non so proprio come faccia ma l'ho molto ammirato".

    Deve provare sentimenti diversi per altre sue esperienze di successo: glissa sul sodalizio con Harry Potter (in cui è apparso quattro volte anche se in un caso ha prestato solo la voce), evita in ogni modo di ritornare ai tempi della collaborazione con Luc Besson (incontrato proprio qui a Cannes e che lo ha diretto due volte), ride del successo di "Air Force One". "Con l'età si diventa saggi, ci si ricorda che le bollette vanno pagate e che i figli vanno mantenuti all'università. Per questo ho accettato spesso ruoli molto... alimentari, ma in media mi sono divertito". Non gli piace invece ricordare invece quando, con due figli a carico e dopo uno dei suoi matrimoni finiti male, per un lungo periodo accettò solo produzioni indipendenti americane per non dover viaggiare lontano da casa o quando si è prestato perfino ai videogame pur di riempire le pause tra un film e l'altro.

    "Con Churchill ne 'L'ora più buia' sono tornato al metodo di 'JFK' - racconta - e ho usato la mia predisposizione ad alterare la voce (ne dà un saggio anche sulla scena di Cannes) per farmi camaleonte sopportando le infinite ore quotidiane di makeup. Ho fumato talmente tanti sigari che alla fine ho rischiato l'intossicazione, ma penso che quando si ha a che fare con una persona realmente esistita si deve avere la responsabilità della sua memoria, se non altro per la sua famiglia. E quindi mi sono impegnato sul serio anche se la lezione migliore la devo a Nolan: con lui arrivavo sul set londinese direttamente dall'aeroporto, battevo un ciak e mi ritrovavo naturalmente nel personaggio senza pensarci troppo. Da allora faccio sempre così anche se mi preparo prima". Conclude con una vera ode al cinema: "In un film tutte le arti possono rappresentarsi insieme. Quando ho fatto Beethoven (in "Amata immortale") ero un musicista, quando ho lavorato con Schnabel in 'Basquiat' ero un pittore, quando scrivo una sceneggiatura (è stato anche regista per il suo 'Niente per bocca') sono uno scrittore, adoro occuparmi degli aspetti tecnici dei film che faccio. Insomma, grazie al cinema, vivo le vite dell'arte. Poi i risultati possono essere diversi: Nei panni di George Smiley ho avuto la nomination per 'La talpa' ma non tutto di quel film mi convince. Sta di fatto che sono dovuto finire a Hollywood per essere riconosciuto dal cinema del mio paese e per questo sono orgoglioso de 'L'ora più buia'. E' come se fossi tornato a casa finalmente da protagonista".


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